Le numerose indagini già avviate da alcune Procure della Repubblica sull’intero territorio nazionale rendono assai probabile – se non certo – che giungerà il tempo, superata l’urgenza, del giudizio sulla gestione dell’emergenza epidemiologica in corso da parte dei medici rispetto ai pazienti e più in generale dei vertici ospedalieri verso gli ospiti delle strutture, eroganti e riceventi le cure mediche e assistenziali.
L’inchiesta aperta a Lodi sulla gestione del “paziente 1” dell’ospedale di Codogno, infatti, ha funto da apri pista per diverse iniziative giudiziarie – sollecitate talvolta dai familiari dei pazienti, talaltre dagli stessi operatori, anche per mezzo delle loro rappresentanze sindacali – che vedono sinora coinvolte strutture ospedaliere e assistenziali di Milano, Aosta, Macerata, Benevento, Sassari e altre città.
I principali reati ipotizzabili sullo sfondo spaziano da lesioni personali e omicidio colposi ad altri delitti colposi contro la salute pubblica, rispetto ai quali tuttavia il nostro sistema penale offre istituti giuridici, per come sinora interpretati, inadeguati a neutralizzare il rischio della responsabilità medica per gli eventi avversi di cui saremo purtroppo costretti a fare la conta in tempo di pace, finita la “guerra”.
Con la riforma Gelli-Bianco del 2017 e l’introduzione del nuovo art. 590-sexies c.p., il legislatore ha voluto escludere espressamente la responsabilità degli operatori sanitari per l’evento infausto che si sia verificato a causa di imperizia, pur essendo state rispettate le linee-guida certificate ovvero, in mancanza, le best-practices adeguate alle specificità del caso concreto.
Sennonché, siffatta causa di non punibilità, se da un lato trova applicazione per i soli reati di omicidio e lesioni colpose di cui agli artt. 589 e 590 c.p., dall’altro è stata sin da subito interpretata restrittivamente dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che ne hanno circoscritto l’operatività alla sola imperizia “lieve” in fase di esecuzione del trattamento sanitario, esigendo a monte l’individuazione (nonché l’ovvia osservanza) di adeguate linee-guida accreditate o buone pratiche clinico-assistenziali.
Ora, è intuitivo ed evidente il limite applicativo dovuto alla novità della patologia e alla sua virulenta diffusività.
La mancanza di linee-guida certificate e l’elaborazione di best-practies in continuo divenire – come testimonia già solo l’incessante aggiornamento delle “Raccomandazioni per gli operatori sanitari” pubblicate sul sito istituzionale del Ministero della Salute – rendono assai incerto l’esito del giudizio di responsabilità (che non mancherà) di medici e infermieri, ai quali dovrebbe invece essere restituita serenità nell’operato, tanto più ora che l’urgenza dell’emergenza li costringe, sotto pressione, in prima linea sul fronte.
Pur volendo confidare in una ragionevole applicazione della causa di non punibilità in parola e in un’attenta valorizzazione della dimensione soggettiva della colpa, che tenga conto dell’attuale scarsità di risorse umane e strutturali, si rende quanto mai opportuno un intervento ad hoc del legislatore capace di dotare il personale sanitario dei dovuti presidi a protezione della propria incolumità non solo fisica, ma anche giudiziaria.