I casi di invocata colpa del medico e di responsabilità professionale dei sanitari coinvolgono spesso il mancato consenso informato o la libertà di autodeterminazione dei pazienti.
A volte, però, vengono decisi dalla giurisprudenza dei casi molto particolari, che tuttavia – astratto il principio dalla fattispecie concreta, ed a causa del precedente che questi principi astratti lasciano nel diritto vivente – rischiano di aprire la strada a pericolose interpretazioni estensive in cui vengono fatte rientrare ipotesi diverse di consenso informato e autodeterminazione, che nulla hanno a che vedere con le “particolarità” del caso di partenza.
Recentemente, ad esempio, la Cassazione si è espressa sul caso di nascita indesiderata di un bimbo, i cui genitori erano entrambi portatori sani di una grave patologia (talassemia), risultato malato di talassemia maior.
La Corte, in questo caso, ha ritenuto censurabile il comportamento del medico ginecologo, che non aveva indagato approfonditamente in sede anamnestica sulle malattie o anomalie genetiche di entrambi i genitori, e per questo non aveva avvertito questi ultimi della possibilità che il figlio nascesse malato (e non solo portatore sano) della stessa malattia.
Il principio che è stato estrapolato dalla giurisprudenza, tuttavia, appare di portata più generale: “il paziente che ometta di fornire alcune notizie nel corso dell’anamnesi, senza ricevere specifiche richieste dal medico, non può ritenersi corresponsabile delle carenze informative, verificatesi in quella sede, che hanno poi determinato l’errore diagnostico, perché non rientra tra i suoi obblighi né avere specifiche cognizioni di scienza medica, né sopperire a mancanze investigative del professionista” (Cass. Civ. Sez. III, ord. 26426/2020).
Tale principio, invero, sembra avere una portata diversa dal caso di partenza.
Ma allora ci si chiede: fino a che punto si deve spingere il professionista nel richiedere i dati anamnestici al paziente?
È evidente, infatti, che non si può pretendere che un medico elenchi al paziente tutte le possibili anomalie, patologie o allergie esistenti per poter dire di aver raccolto un valido consenso informato e per aver rispettato il diritto all’autodeterminazione del paziente stesso.
In effetti questo comporterebbe, ad esempio, che i moduli del consenso informato diventino delle enciclopedie, con il rischio poi di sentirsi dire che, essendo eccessivamente complessi, risultano incomprensibili al paziente medio.
Come può il medico difendersi da queste strane “espansioni” dei principi di diritto?
Innanzitutto prestando attenzione ai campanelli d’allarme, e rivolgendosi a degli specialisti nella tutela dei sanitari.
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