Come noto, si intende “off-label” l’utilizzo di un farmaco quando quest’ultimo, già sperimentato ed autorizzato, noto ed utilizzato nella medicina tradizionale, viene somministrato per usi alternativi e diversi rispetto a quelli per cui è stato immesso nel commercio.
In alcuni casi infatti il medesimo farmaco, utilizzato anche in dosaggi o modalità diverse da quanto espressamente previsto, può aiutare o coadiuvare per la gestione di patologie diverse, soprattutto nei casi in cui una terapia specifica non sia stata ancora individuata.
In Italia la legge che permette ai medici di utilizzare in tale modalità i farmaci, legge che peraltro ha introdotto anche le “terapie compassionevoli”, è la cd legge Di Bella (D.L. n. 536 del 1996, convertito in Legge n. 648/1996 e dalla Legge n. 94/1998), che dà la possibilità di prescrivere e utilizzare, a carico del SSN, farmaci al di fuori delle indicazioni terapeutiche approvate dall’Autorità regolatoria.
L’art. 1, comma 4 dispone infatti che “…qualora non esista valida alternativa terapeutica, sono erogabili a totale carico del SSN …i medicinali innovativi la cui commercializzazione è autorizzata in altri Stati ma non sul territorio nazionale, i medicinali non ancora autorizzati ma sottoposti a sperimentazione clinica e i medicinali da impiegare per un’indicazione terapeutica diversa da quella autorizzata, inseriti in apposito elenco predisposto e periodicamente aggiornato dalla Commissione Unica del Farmaco…”.
Le reali percentuali di utilizzo e diffusione di questa tipologia di impiego dei farmaci in Italia non sono certe, e conseguentemente, anche a livello legislativo e giurisprudenziale la tematica è spesso passata “sotto traccia”.
Ora la pandemia COVID-19 ha reso necessario tale utilizzo di vari farmaci, ed aprirà nuovi orizzonti giurisprudenziali e (si auspica) legislativi.
Questo virus, infatti, che si è diffuso a macchia d’olio in tutto il pianeta, ha costretto l’intero ordine sanitario a interrogarsi sui trattamenti a cui sottoporre i malati.
In attesa di un farmaco specifico e, fino a poco tempo fa, di un vaccino idoneo a rallentare i contagi (efficace anche per le varianti e mutazioni del virus che stanno emergendo), non si è potuto che ricorrere all’utilizzo di quanto già era a disposizione del mondo sanitario, tramite la somministrazione di alcuni farmaci come terapia di supporto.
A titolo esemplificativo, si possono annoverare alcuni antimalarici, come la clorochina o idrossiclorochina, o anticorpi monoclonali antinfiammatori come il tocilizumab, o ancora alte dosi di vitamina C, o eparina a dosi terapeutiche anziché a dosi profilattiche.
Successivamente anche l’Agenzia del Farmaco ha predisposto una rete di raccolta e scambio dati utile ad individuare quali farmaci potessero fungere appunto da terapia di supporto.
Tale interscambio però non si avvicina, neppure lontanamente, a quel concetto di linea guida tanto caro al Legislatore degli ultimi decenni, che ha talvolta privato il medico della sua libertà di approccio terapeutico.
Con il COVID-19, invece, si chiede (si invoca?) che il medico torni ad essere anche ricercatore, ad indagare, sul campo e fuori dai laboratori, gli effetti concreti della malattia ma anche gli effetti, non sempre positivi, dell’utilizzo di taluni farmaci.
E se da un lato la maggiore libertà di ricerca ha permesso ad alcuni di sentirsi “meno vincolati”, dall’altro li ha inevitabilmente esposti a una grande varietà di rischi e responsabilità.
In primo luogo è sempre la legge Di Bella ad esplicitare la responsabilità gravante sul medico che utilizza tali farmaci “in singoli casi il medico può, sotto la sua diretta responsabilità e previa informazione del paziente e acquisizione del consenso dello stesso, impiegare il medicinale prodotto industrialmente per un’indicazione o una via di somministrazione o una modalità di somministrazione o di utilizzazione diversa da quella autorizzata”.
È dunque onere del medico prescrittore, in caso di successive contestazioni, dimostrare le proprietà terapeutiche e la sicurezza d’impiego di quel medicinale, con ciò dovendo dimostrare la non casualità della scelta operata, seppur posta al di fuori della prassi.
L’art. 3, II comma, L. 94/98, specifica infatti che è consentito al medico di “ impiegare un medicinale prodotto industrialmente per un’indicazione o una via di somministrazione o una modalità di somministrazione o di utilizzazione diversa da quella autorizzata sempre che sussistano le condizioni seguenti: (a) che il medico stesso ritenga, in base a dati documentabili, che il paziente non possa essere utilmente trattato con medicinali per i quali sia già approvata quella indicazione terapeutica o quella via o modalità di somministrazione; purché (b) tale impiego sia noto e conforme a lavori apparsi su pubblicazioni scientifiche accreditate in campo internazionale; previa la (c) informazione del paziente e acquisizione del consenso dello stesso, e ferma restando (d) la diretta responsabilità del sanitario.”
Gli elementi ritenuti essenziali dalla legge per consentire l’accesso a questo tipologie di cure rendono subito evidenti le responsabilità, anche valutative, che gravano sul medico.
Egli dovrà appurare se il caso che sta curando possa essere sottoposto a farmaci off label, naturalmente tenendo in debita considerazione l’efficacia maggiore rispetto alle ordinarie terapie specifiche (se esistenti), e dovrà convincersi di tale scelta sulla base di evidenze scientifiche che fungano da giustificativo e supporto della propria tesi terapeutica.
Evidentemente, sotto tale profilo, nel 2020 e solo per il trattamento del COVID-19 sono state create tuttavia delle importanti deroghe, per consentire la sperimentazione dei farmaci off label anche in condizioni diverse.
Non da ultimo, egli dovrà acquisire un consenso pieno, consapevole ed informato da parte del paziente: cosa che mai come in casi di questo tipo, e come nel caso del COVID-19, risulta essere particolarmente complessa.
Se infatti l’informativa da rendere al paziente deve essere esaustiva e comprensiva di tutte le ipotesi, anche negative, legate alla somministrazione, così da permettere al paziente di scegliere consapevolmente e scientemente se sottoporsi al trattamento, è chiaro come tale chiarezza non possa esistere in casi come quelli dei farmaci off label i quali, per definizione, seppure noti negli effetti e nella posologia, lo sono limitatamente ai casi per cui sono stati studiati.
Un utilizzo divergente rispetto alle autorizzazioni ministeriali non potrà che comportare effetti divergenti e forse neppure noti.
Inevitabilmente, pertanto, l’informativa resa dal medico dovrà tener conto di questa limitata conoscenza degli effetti del farmaco e dovrà, al più, puntare con chiarezza al far comprendere la tipologia di trattamento “eccezionale” a cui si dovrà sottoporre il paziente.
Non da ultimo, e nel caso del COVID forse potrebbe essere il primo dei problemi, spesso questi farmaci vengono somministrati a pazienti non in grado, nell’immediatezza, a causa delle condizioni particolarmente gravi di salute, di comprendere e conseguentemente accettare consapevolmente un trattamento terapeutico anziché un altro.
Si entra dunque nell’ambito della medicina d’emergenza che non può attendere e che deve intervenire, nel migliore dei modi, nell’immediatezza, anche a prescindere dalla consapevolezza del soggetto.
Alla luce di ciò la disciplina del consenso informato vede un temperamento normativo, che prevede la possibilità di procedere senza il previo consenso nei casi di assoluta emergenza ed urgenza, liberando il medico da ipotesi di responsabilità specifica.
Il quadro sopra esposto non può che far emergere dei dubbi circa la tipologia di responsabilità a cui può essere chiamato il medico che si è visto costretto ad utilizzare, per il trattamento del COVID-19, farmaci off label.
Nel prossimo articolo tratteremo proprio delle ipotesi di responsabilità a cui potrebbe essere esposto il medico che sceglie di utilizzare questa tipologia di trattamento.