Il consenso informato, negli ultimi anni, è diventato un tema centrale della responsabilità sanitaria, ed è per i medici una questione da tenere in grande considerazione.

La L. 219 del 2017 lo definisce così: “il consenso informato medico è il processo con cui il paziente decide in modo libero e autonomo dopo che gli sono state presentate una serie specifica di informazioni, rese a lui comprensibili da parte del medico o équipe medica, se iniziare o proseguire il trattamento sanitario previsto”.
La necessità di ottenere un consenso informato per ogni atto e trattamento medico risponde al principio, espresso nella stessa legge, per cui “nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge”.
Ancor prima, il consenso informato trae la sua forza dal principio di autodeterminazione individuale, costituzionalmente garantito, per il quale ciascuno, come singolo, ha il diritto di decidere per se stesso, nei limiti in cui egli non leda i diritti altrui e sociali.
Il consenso informato, inoltre, “è un atto di specifica ed esclusiva competenza del medico, non delegabile”, come riconosce anche il codice di deontologia medica, all’art. 35.
Da tutto ciò discende dunque che le conseguenze dell’acquisizione di un consenso non informato ricadono primariamente sul medico, ed eventualmente pure la struttura condannata a pagare il risarcimento del danno al paziente potrà, in certi casi, rivalersi sul medico, pretendendo a propria volta il pagamento di un indennizzo.
Altrettanto potrà fare la Corte dei Conti, in caso di colpa grave, ove venga accertato un danno erariale.
Invero, il paziente potrà chiedere il risarcimento non solo nel caso in cui il trattamento abbia avuto effetti negativi o sia risultato errato, dal momento che la Cassazione ha più volte ribadito che in caso di mancanza di consenso informato è certamente ipotizzabile un danno alla salute (ad es. se l’intervento chirurgico ha avuto un esito infausto), ma anche quando sia ipotizzabile un autonomo danno per lesione al diritto di autodeterminazione del paziente, nel caso in cui si dimostri che quest’ultimo non si sarebbe sottoposto al trattamento (che magari può anche aver dato gli esiti migliori) se avesse ricevuto un’informativa completa.
Sul fronte penale, invece, il medico – secondo la giurisprudenza più recente – non potrà essere condannato, se il trattamento ha avuto un esito fausto.
Per questi problemi, negli ultimi anni vi è la tendenza a sottoporre ai pazienti dei moduli di consenso informato molto articolati, che comprendono l’elencazione di (se non tutti) moltissimi possibili effetti avversi di interventi, cure e trattamenti.
Ma nemmeno questo basta.
In effetti, sulla scorta del dato letterale espresso della legge, la Corte di Cassazione più volte ha confermato che ci si deve accertare, nel caso concreto, che il paziente abbia correttamente compreso le informazioni che gli sono state date, anche a seconda del suo livello di istruzione e delle possibilità di comprensione.
Alla luce di questo principio cardine, cioè l’effettiva comprensione del paziente di quanto comunicato dal medico, neppure la forma scritta può infatti soccorrere quest’ultimo, vuoi per la complessità – appunto – della terminologia spesso utilizzata, vuoi per la difficoltà di molte persone ad approcciarsi ad un testo scritto, in un contesto demoralizzante di analfabetismo sociale.
Ancora, per ottenere il consenso pienamente informato la Cassazione chiede che il medico indaghi sulle peculiarità storiche cliniche del paziente, in modo da comprendere e spiegare in modo completo la situazione.
Ebbene, sulla base di tali premesse è difficile pensare di attuare quella valorizzazione della “relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico che si basa sul consenso informato nel quale si incontrano l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico” di cui parla l’art 1 della l. 219/2017.
Ciò, innanzitutto perché sul medico grava oggettivamente un’obbligazione impossibile da adempiere: come può un medico ergersi a psicologo per capire senza dubbio se il paziente ha capito o meno il senso delle sue frasi? O indagare nel suo passato?
E soprattutto, quanto tempo è concretamente concesso al medico (ad esempio strutturato, che lavora in una azienda sanitaria) per intrecciare un rapporto vero con il paziente e spiegare effettivamente a questi le condizioni cliniche, i rischi e benefici di un trattamento, i possibili eventi avversi e le attese realistiche di miglioramento?
Pare evidente, dunque, lo squilibrio del rapporto ed il pericolo cui i medici vengono esposti.
Emblematico, al proposito, sembra il caso del consenso informato per la somministrazione del vaccino COVID: è servito un Decreto Legge apposito (DL 44/2021), con la finalità espressa di “rasserenare” la classe medica, per tentare di disincentivare le cause e le denunce addirittura nel contesto pandemico, pure se – come già più volte è stato osservato – con effetti molto blandi, di mero indirizzo e peraltro con strumenti già previsti dalla Legge Gelli.
Pare, in definitiva, che serva altro per recuperare quella sacralità del rapporto medico-paziente e quell’alleanza terapeutica per la quale il consenso informato si trasformerebbe da una decisione del paziente solo, ad una scelta condivisa e consapevole, nella quale il medico prende per mano il paziente e lo aiuta ad arrivare allo stato di salute migliore.